venerdì 17 febbraio 2012

Dal mio romanzo Venite signori, venite!

Fumavo. Fumavo un sigaro e bevevo del vino, lì, alle cinque del pomeriggio, al garage, (un garage di un caseggiato di mio padre, dove con l’aiuto dei miei ex compagni anni prima avevo fatto delle stanze, con legname trovata in giro e rubata) nell’attesa. Nell’attesa che qualche evento sconvolgesse i miei giorni. Fuori la corsa della realtà andava avanti senza un attimo di respiro, mentre io ero lì, a bere vino e a fumare, alle cinque e un minuto del pomeriggio, con i miei fantasmi intorno. E riflet-tevo, anche se volevo che non fosse così.
Ero reduce da circa due anni di vagabondaggio fra l’Italia e l’Europa. Avevo rincorso qualcosa, a volte in compagnia di due miei ex amici, Costanzo e Valerio, e quel qualcosa mi aveva condotto fino al limite, e dopo non ho visto altro. Mi ritrovavo con una vitalità bestiale ma non sapevo dove sfruttarla. La vita mi si era risultata una balla, e spesso pensavo al suicidio, ma non riuscivo mai a mettere in pratica l’atto. Anche col suicidio niente da fare. Mi sentivo come uno che avrebbe dovuto trovar-si da qualche altra parte, però non sapevo per nulla dove diavolo si trovava quest’altra parte, e se c’era. E mi persuadevo che non esisteva affatto. Non trovavo un senso. Non mi capacitavo. Tuttavia, ero vivo, e dovevo continuare a vivere i miei giorni. Quei miei fottutissimi giorni di estremo silenzio.
Perlopiù non facevo un cavolo. Lavoravo di tanto, qualche giorno, per ricavare qualche moneta, o nelle campagne di mio nonno, o col lavoro di elettricista con mio fratello Nicola, o come factotum. Anche il lavoro non m’interessava. In realtà non mi interessava più niente. La cosa problematica era che serviva comunque la moneta. In qualche modo dovevo sbarcare il lunario, pagarmi i vizi, mantenermi, ed anche in questo trovavo molta difficoltà. Mi ritrovavo spesso senza una lira in tasca, il che aveva qualcosa d’affascinante, però i minuti, le ore, passavano, e lo stomaco ed il cervello non riuscivano a mante-nersi accontentati della bella sensazione per molto tempo. Poi ci voleva la materia, il liquido.
Tempo prima, per qualche mese, avevo lavorato nell’edicola (allora di mio padre) che vendeva anche strumenti musicali ed altro, e in quel periodo avevo comprato un po’ di libri. Ora que-sti libri, quando mi capitava, li rivendevo a conoscenti ed affini a metà prezzo. In qualche modo dovevo ricavare qualche mone-ta. Ogni tanto andavo persino a Catania, al mercatino delle pul-ci, e compravo delle cose che poi rivendevo, (quando mi capi-tava) a conoscenti ed affini che ogni tanto incontravo. Altre volte, e di rado, quando proprio non riuscivo a conquistarmi una lira, andavo da mia madre, o da mia nonna, e chiedevo loro cinquemila lire. Se trovavo il giorno propizio ricavavo anche diecimila lire. Ma poi ero un nulla facente, ormai considerato pazzo, e continuavo a bere, aspettando che gli dei mi mettessero davanti qualche altra novità. Ma di novità non se ne vedevano proprio. Si vedeva solo una realtà sempre uguale che ogni gior-no riprendeva a girare, e girare, e girare, e a me giravano le palle.
Le uniche cose che mi tenevano aggalla erano i libri, i fumetti di Dylan Dog, ascoltare musica, suonare la chitarra, comporre musiche e canzoni, e scrivere poesie. Scrivevo un mare di poesie al giorno, (e anche la notte) delle quali un sessanta per cento finivano nella spazzatura, e proprio in quel periodo mi ero ci-mentato a scrivere un romanzo, il mio primo romanzo; E venne il tempo vietato alle bestie. Non era un libro porno, anche se trattava anche di erotismo, ma una storia inventata di un tipo che non era mai contento (guarda caso). Ero arrivato alla vente-sima pagina, e lì mi ero bloccato. Del resto, ero depresso, molto depresso, e incazzato. Mi era scivolato tutto dalle mani, e con-tinuavo a bere vino e a cercare di non pensare, alle cinque e dieci del pomeriggio, lì, al garage, sempre al garage, e solo. A parte il mio gatto nero; l’unico che resisteva ancora.
Intanto la radio suonava Paolo Conte. Ah che bella quella canzone, “Avanti bionda”, mi fa venire in mente una bionda che so io. Una che incontravo spesso sulla mia strada. Era una donna sui trenta che mi faceva morire. Ogni quando la vedevo mi ribolliva il sangue. Ma la cosa che mi ribolliva di più era che non trovavo la situazione, o la follia, per riuscire a sconvolgerla. Ero in questo periodo così a terra, così pieno di vicissitudini, che la sola follia che trovavo era quando prendevo a pugni la porta o quando buttavo tutto in aria, o quando suonavo o scri-vevo. Cazzo, spesso me ne stavo ore a fissare le pareti, il soffit-to, riflettendo su cose perdute o altre illusorie. Ci sarebbe voluto un miracolo per rimettermi in piedi così su due piedi. Sì, un vero miracolo, così, come se da un momento all’altro avessi sentito suonare il campanello e, quando fossi andato ad aprire, avessi trovato davanti alla porta lei, la bionda. No, cazzo, le bionde te le devi conquistare. E pensare che l’unica bionda con cui ho avuto un rapporto sessuale (fin ora) è stata la ragazza del mio amico Valerio, la quale ha deciso di tradirlo con me. Pro-babilmente, se quell’altra bionda fosse stata la ragazza di qual-che mio amico, magari, avrei avuto più fortuna. Ma si sa, la for-tuna è degli audaci. Tra l’altro, io non avevo più amici, anzi, non ne ho mai avuti di veri. E poi, anche se la bionda in questione avesse varcato la porta e fosse finita nel mio letto, avrebbe solo attutito qualche colpo, e non tappato il buco dentro di me.
Poi mi alzai e andai al cesso. Dopo aver buttato giù un paio di stronzi presi una rivista porno e mi sparai una sega. Alla faccia delle bionde, degli amici, e degli audaci.
Poi andai in quella che era la cucina, mi riempii un bicchiere d’acqua dal rubinetto, e lo bevvi. Affermavano che l’acqua del-le condotte idriche del paese era ormai non potabile, ma a me non mi ha fatto ancora niente di male, e non mi sono spuntate neanche le branche. Bah, forse un giorno riuscirò a respirare anche sott’acqua; chi lo sa?
Più tardi mi misi a suonare un po’ la chitarra, e dopo aver fini-to di comporre un pezzo, e non sapere che fare, mi tornò alla mente il pensiero del suicidio. Poi pensai a qualche altra cosa, ma nessun pensiero mi conduceva da qualche parte. Vagavo tra cielo e sottosuolo, e la rabbia dentro di me e la disperazione era così tale da incendiare l’aria stessa.
Poi scrissi un paio di poesie su dei fogli A 4, delle quali una era questa.

Dicono
Dicono che sono un anticonformista
Dicono che istigo alla ribellione
Che non mi affianco alla famiglia
Che sono asociale
Prepotente…
Dicono che non intelligente
Dicono che non me ne frega niente
Di niente
Che sono uno psicopatico
Un porco depravato
Che mi arrogo il diritto di dire
Dicono mari e mari di cose
Su di me.
D’altronde
Ogni uno dice la sua
Ma è la sua?
D’altronde
Si dice…
Sono io
Che non presto attenzione
A quello che dicono gli altri.
È vero
Sono anche quello
Che dicono gli altri
Ma sono sempre a modo mio.

Un momento dopo presi in mano i fogli, e dopo aver riletto quello che avevo scritto n’accartocciai due e li buttai sulla mo-quette. Inchiostro su carta, fogli sprecati, alberi abbattuti, niente di più. Sì, magari in uno di quei fogli c’era scritta l’ultima verità, ma a che sarebbe servita quella verità? A chi sarebbe servita? A me? Be’, io mi ero già bruciato, e più in fiamme di così non potevo andare. Avevo trovato anche il limite alle ustioni. Potevo bruciare fino ad un certo punto, poi basta, il fuoco si spegneva da se, mentre io volevo che andassi in cenere. Ma io chi ero? Chi mai potevo pensare di poter essere? Chi sono? Nessuno. E intanto bevevo e fumavo, da sempre, aspettando che il tempo mi consumasse. Che vita gente, che vita!
Poi uscii. Andai a comprare le sigarette. Feci un giro al parco. E dopo non aver trovato niente di nuovo andai a comprare due litri di vino casereccio e me ne tornai al garage. E lì bevvi, bevvi per dimenticare, per ricordare, per non pensare, per inebriarmi, uccidermi, per mantenermi vivo e guardare in faccia la morte e sorriderle. Bevvi per riscaldarmi, per calmarmi, per vincere me stesso, la mia malattia, la tristezza, la noia, l’insonnia. Bevvi così di continuo che senza neanche accorgermene vuotai i due litri di vino. Ma non volevo fare niente di più che stare lì, al garage, perché fuori c’era un mondo che non mi assomigliava per niente, e io avevo visto così tante cose da sentirne ormai la nausea.
Poi associai al vino una pillola di ansiolitico, e qualche ora dopo sprofondai nel sonno; il miglior momento di quella vita. E neanche per quel giorno avevo incontrato la bionda, o qualcun altro, e neanche la madonna. Però almeno ero riuscito a prende-re sonno. E sognai… che diavolo sognai? Be’, sognai che mi stavano decapitando… Poi, così, come succede nei sogni, mi ritrovai in un altro posto, fra le braccia di una donna che aveva qualcosa di veramente umano. Io, invece, aldilà delle interiora, avevo sei braccia, due piselli, e tre palle. Mi sentivo un po’ im-pacciato, ma non era una cosa nuova per me… quindi, sempre come succede nei sogni, avevo le mie sei mani sparse qui e la fra i corpi di dodici donne… Poi mi ritrovai nuovamente sotto l’ascia del boia… poi il boia diventò un boa… io mi stavo ca-gando addosso… e giusto nel momento che stavo al cesso mi ritrovai in un salotto a discutere con due intellettuali, mentre il bisogno di defecare diventò un bisogno di vomitare, poi di uri-nare. Nei sogni non sì ci capisce un cazzo. Tanto che mi feci così prendere dalla discussione con questi intellettuali, che per non bloccare il discorso aprii la finestra, mi tirai fuori l’uccello, e solo quando mi sentii umido mi resi conto che mi stavo pi-sciando nel letto… ma ormai era tardi; l’avevo fatta tutta. Che brutto risveglio, e più che altro è stato nel fior fiore della notte. Dopodiché mi tolsi le mutande, mi portai dall’altra parte del materasso, mi accesi una sigaretta, e quando la fumai cercai nuovamente di dormire. Ma non fu per niente una cosa sempli-ce. Tuttavia, quando sprofondai nuovamente nel sonno, mi ri-trovai di nuovo nello stesso sogno di prima. In pratica sotto l’ascia del boia. Giusto nel momento che mi decapitava. Un momento dopo mi ritrovai con la testa giusto sotto le palle. La afferrai con le mani e me la riportai al suo posto, ma appena mollai la presa mi andò nuovamente giù come una parte che non fosse più comandata dal mio corpo, e un momento dopo venne giù anche il corpo, e finalmente mi addormentai sul serio.

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