martedì 10 aprile 2012

Interruzione di pagina

E casco dal sonno
Mentre la gente fuori esulta
Rincorre gonne
Si sfascia la testa
Corre sulla strada
Investe soldi
Fa carriera
Io casco dal sonno.
E donne cercano
Maschi per giocare
Un gioco con i fazzoletti
E con i sensi a portata di mano
Senza troppe fuori uscite
Con il sorriso disegnato
E il culo bello sodo
Che faccia palestra
E sappia fare bau bau
O miao
Dipende dai casi
E io che saprei anche volare
Casco dal sonno
Proprio come quell’idiota d’amico
Che avevo un tempo
Che ora è morto di sonno
Però lui aveva sonno
Anche quando c’era una vita
Più interessante.
E pensare che io
A quel tempo
Non dormivo quasi mai
Anzi
Poco
Ma era tutta vita.

Le spie

Sarei dovuto morire dieci anni fa
Quando mi sono reso conto
Della nullità della vita
Allora avrei dovuto spegnere la luce
E dire bye bye a questo mondo
Ma non è stato così
Non ci sono riuscito
Tutto quel che ho saputo fare
È stato rinchiudermi dentro quattro mura
E aspettare
Fra il nulla del niente del vano
Fumando e bevendo
E creando poesia
Testi e musiche
Osservando le crepe della mia miseria
In una solitudine minacciata
Dall’aria stessa.
E oggi sono ancora qua
Fra altre quattro mura
Dopo aver rivissuto altre vite
In un mare di alcol
Minacciato da una noia killer
E da un occhio arcano
Che mi ha sempre spiato
E non mi ha lasciato
Mai morire in pace.

giovedì 5 aprile 2012

Ma prima o poi, all'improvviso, cadrò stramazzato, e poi sarà un saluto per tutti; un bel vaffanculo!

Mio zio fotteva più spesso

Mi ricordo da piccolo
Che ero molto curioso
Di scoprire le cose intorno a me
E spesso mi trovavo lì
A casa di mia nonna
Dove ci stava mio zio e la sua donna.
Vedevo che questi
Andavano spesso nella loro stanza da letto
E da lì si sentivano dei colpi continui
Come di un martellare
Ora lento e poi più veloce.
Ma che cosa fanno lì sopra
Mi chiedevo
Stanno mica aggiustando qualcosa?
Quando loro non erano nella stanza da letto
Andavo furtivo nella stanza
E la controllavo
Ma la trovavo sempre uguale
Senza nessun cambiamento.
Allora c’erano molti tabù
E noi bambini non conoscevamo
Nemmeno la parola fare l’amore
Figurarsi che cosa poteva essere.
Ma io ero curioso
E incoscientemente
Volevo aprirmi la mente
Quindi un bel giorno
Seguii mio zio e la sua donna
Furtivo
Nella loro stanza da letto
E li vidi
Dallo spiraglio della porta
Mentre mio zio saltava sopra la zia
Che si dimenava e gemeva.
Be’
Allora non conoscevo nemmeno la parola gemere
Ma col tempo
Dopo aver spiato mio zio
E poi affrontato la vita
Crescendo
Mi resi conto
Che mio zio fotteva più spesso di me
Quindi mi diedi un bel da fare
Per, almeno
Eguagliare lo zio.
Ma quando io finalmente
Cominciai a fottere davvero
E di continuo
Lo zio era bel e morto
Da un bel po’ di anni
Ma tuttavia pensando
Che lui fosse stato
Uno scopatore senza fine
E bevitore senza fine
Cercai di darmi una calmata
Giusto perché mi era parso
Di aver superato di gran lunga
Le prestazioni dello zio.

La maggior parte della gente ci mette così tanto impegno che riesce a farle davvero bene le stronzate!

Gli dei sono con me, potrei darmi delle arie, camminare con la macchina così senza assicurazione, tranquillamente facendo sorsi nella bottiglia; ma sapete cosa hanno fatto a quel cristo, quindi sto attento!

La fortuna

E poi mi ritrovo qui
A scrivere
Da sempre
Dopo giornate deludenti
Mi sono ritrovato a scrivere
Più o meno ogni sera
Dopo emozioni mancate
Emozioni da poco
Giornate di merda
Belle e brutte storie
Tra ironia e volgarità
Tra depressione e rabbia
Con la bottiglia sempre accanto
Che mi ha tenuto compagnia
In una solitudine vera e propria
Dopo aver fatto pazzie
O semplicemente osservato le cose intorno
E taciuto
O parlato troppo
O rubato qualche emozione
O preso di soppiatto un sorriso
O illudendomi
Fantasticando
Tra lavoro e noia
Tra non lavoro e ozio
Fumando mari di sigarette
ruscelli di sigari
dopo aver scopato
o fatto l’amore
o sesso
o una personale sega
fra giornate senza senso
dopo aver ascoltato questo
e quell’altro idiota
fra la mia sconfitta
il mio buco nero del culo
infiammato
il mio pene insaziabile
il mio stomaco andato a male
il fegato che bestemmia
le mie mani nel vuoto
o fra la carne
vuota
e il mio pugno
contro il cielo.
E scrivo
Da sempre scrivo
E vivo
E alle volte
Ho bisogno d’aria
Ma non la darò mai
Vinta del tutto
A questa realtà coniuge
E scriverò
Scriverò fino a morire
E poi finalmente
Lascerò tutto il resto
In questa merda
Che chiamano realtà.

Teoria e pratica

Delitto e castigo
Be’, delitto e castigo
Amore e morte
Passione e depravazione
Teoria e pratica.
In teoria saprei già tutto
In pratica è un casino
Per dirla così.
Morire sì
Morire si può facilmente
Morire adesso e subito
E lasciare tutto come sta.
E poi?
E poi niente
E poi basta
Smettere di esistere
Fra questa idiomatica e stronza
Vitaccia di merda.
Ah, Dostoevskij
Ormai si è ingarbugliato tutto
Non si capisce più un cazzo
E meno si sa meglio è.
Ormai siamo tutti persi
Nel vano dei vani.
Be’?!
Be’, un corno.
Intanto Tchaikovsky va
La serata è noiosa
E io non mi sento
Né carne né pesce
Come disse Fante
In quel suo libro:
Chiedi alla polvere.
E allora, che dire?
Vaffanculo!
Ecco, l’ho detto
E ora?
E ora ancora niente
Momentaneamente
Avrei bisogno di andare al cesso
A svuotare tutta la merda
Che mi sta intasando lo stomaco.
Che giornata oggi
Ma anche ieri, non è che sia stata…
Però, per certi versi
Meglio di oggi.
Avanti ieri ho finito di leggere
Delitto e castigo
E ora sono due giorni
Che non so più cosa leggere
Vago tra questo
E quell’altro autore
Ma nessuno di loro
Riesce a prendermi.
Morire sì
Morire si può
Facilmente.

Altresì

Eravamo in un bar del centro…
Lui, cliente abituale del locale
Se ne stava seduto
Dall’altra estremità del bancone
Io, cliente momentaneo del locale
Me ne stavo seduto
Dall’altra estremità del bancone.
Sia io sia lui
Avevamo un bicchiere di whisky
Appoggiato sul bancone
Ma ci sentivamo fuori posto
E mentre gli altri
Seduti fra me e lui
Cianciavano morbose noiosità
Io e lui ci stavamo chiedendo
Ma che cazzo ci sto a fare io
In questo posto?
Poi lui si volta verso di me
E mi fa:
“Senti amico
ti andrebbe di fare cambio di posto?”
“Amico”
gli faccio io
“Non è cambiando di posto
che potremmo risolvere la situazione
ma andandocene via da questo bar.”
Di colpo
Tutti gli altri che stavano al bancone
Si azzittirono e mi guardarono
Dall’alto della loro merda
Anche il tizio all’estremità del bancone
Continuava a fissarmi
E anche il banconista mi fissava
E anche quello alla cassa
E anche le mura
Le bottiglie
L’arredamento
Le troppe luci
Tutto mi fissava.
Io
Mentre loro mi fissavano
E stavano in silenzio
Presi il bicchiere in mano
Lo portai alle labbra
Bevvi tutto d’un sorso
E mentre feci per alzarmi
E andarmene
Il banconista mi chiese:
“Scusa
che cos’ha questo bar che non va?”
Guardai la sua faccia
Era opprimente
Ma guardando quella faccia
Trovai la risposta.
“Le luci, si
ci sono troppe luci in questo bar
stancano gli occhi.”
Dopodiché mi accesi una sigaretta
E mi tirai fuori
Dove le luci
Qualcuno
Di tanto le rompe.

Quel che conta

In fin dei conti
Quel che interessa me
È scrivere
Sì, scrivere
Battere sui tasti
E far scorrere la mente
Poi del resto
Di vita
Ce n’è veramente poca
In giro
Ed è già molto
Quando riesco
A prendere qualcosa
Che poi possa anche scrivere
E anche quando non trovo vita
Aldilà della mia
Finché riesco a scrivere
E okay
Ma quando non riesco a scrivere
Sono cavoli
Per così dire
Specialmente se non trovo neanche
Niente di vivo da leggere.

domenica 1 aprile 2012

Anteprima della prefazione di "Las Americas", un mio romanzo di prossima pubblicazione

Prefazione

Chi non si è mai chiesto, almeno per una volta, nei suoi vent’anni, qual è il suo senso nella vita, e soprattutto, che cosa volerne fare dei propri giorni? Volere continuare a sognare fra le pagine di quel libro che vi ha rapiti, immaginando dei perso-naggi che riescono ad essere quello in cui voi ritrovate il vostro alter ego, (o probabilmente il vostro vero io) o invece decidersi, liberarsi da quel senso che ci tiene attaccati ai canoni di una re-altà comune, e andare a vivere di persona tutte quelle avventure e disavventure che la vita tiene in serbo per chi si sbilancia?
La maggior parte della gente, comune e non, non fa altro che fare finta, e si crea un personaggio che il più delle volte non è neanche il suo. Ma lo fa per paura, pura paura di affrontare quel che poi è la consistenza a dimostrare chi si è veramente. Certo, è duro, riuscire a tirarsi fuori da quella armatura che, comunque, in qualche modo sei proprio costretto ad indossare per attutire i colpi, ma la ragione sta proprio qui; è più conveniente subire questi colpi come una vittima o affrontarli perlomeno da essere vivente? No, perché perlopiù, e oggi più che mai, più che esseri viventi stiamo sembrando soltanto dei conviventi comuni, e che oltretutto non si sopportano a vicenda, o perlomeno l’uno vuole prevalere sull’atro. Vogliamo sentirci superiori agli altri. Ma secondo me non è questo il punto. Secondo me, se uno vuole qualcosa dalla propria vita, prima di tutto deve mettersi in discussione con se stesso, e affrontarsi, e anche nel caso che perda, non prendersi mai del tutto sul serio, ma seriamente con-tinuare a rischiare la rivincita. Gli dei ci osservano, o, oltremo-do, la vita.
Nei miei vent’anni avevo una voglia smisurata di andare via dal mio paese, e cercare una qualche forma di vita più interes-sante, (anche se tra l’altro non è che i miei giorni non fossero interessanti; ma io volevo di più) andare a vivere la vita davvero giorno per giorno, con le capacità del mio genio, e soprattutto per vincere quella mia paura che mi rendeva del tutto pigro, e mi faceva accontentare solo del sogno. (Intanto scrivevo poesie) Ma io in qualche modo sapevo che dentro di me qualcosa ci doveva essere, e così un bel giorno, per caso o per volontà, decisi di lasciare tutto e andarmene incontro ad una sorte vaga-bonda. Non ero sicuro di niente; non lo ero mai stato, ma la vo-glia, l’istinto, fu più forte di ogni pensiero. La sera prima che partissi nella mia avventura avevo all’incirca 140mila lire, ma quella sera, incontrando il mio amico Costanzo, decisi di brin-dare alla mia risoluzione. Quando io ho avuto una lira ho brin-dato quasi sempre a qualcosa. Se è stata amarezza ho brindato ad essa, se è stata una cosa simpatica ho fatto lo stesso, e così anche con tutte le altre cose emotive che mi sono capitate. Ad ogni modo, quella sera, poiché Costanzo era senza una lira, e siccome noi eravamo due che tracannavano, e che ci davano dentro di brutto, partirono le 40mila lire. Be’, avevo sempre le 100mila.
Costanzo era un gran bevitore e nello stesso un valente fuma-tore di cannabis. Io alle volte non riuscivo a capire come riu-scisse a mantenere le due sostanze insieme senza dare sintomi di sballottamento perlomeno visibile. Io ero uno che tracannava sì tanto, ma lo sballo lo accusavo, e mi ci perdevo, e addirittura ci godevo, e poi mi sprigionavo in follia, e finalmente mi ritrovavo in quella forma di vita che abitava dentro a quell’essere che sarei dovuto essere io.
Il giorno dopo sistemai lo zaino, presi la chitarra classica che mi aveva regalato un omosessuale a Graz, in Austria, andai a comprare qualche bottiglia, e nella serata fui già sul treno per Roma Termini.
I primi giorni a Roma, con i soldi in tasca, mi parvero una va-canza, ma quando mi finì la grana mi resi conto che dovevo darmi un bel da fare, e da quel momento, incurante del futuro, divenni un vagabondo. Passai mille storie, viaggiai per quasi tutta l’Europa, a volte in compagnia del mio amico Valerio e la sua ragazza, Gaia. Conobbi nuovi personaggi, un bel po’ di ra-gazze. Con qualcuna di loro ebbi delle spudorate avventure ses-suali. Poi rincontrai Petra, una ragazza bulgara che avevo la-sciato in Austria prima di questa mia avventura, il mio amico Costanzo, e poi ancora viaggi, fino a scoprire un amore platoni-co che vissi per tre giorni, fra Isabel, (una francese) e Teide, (canario) a Tenerife, nelle Canarie.
Feci il vagabondo per circa due anni, poi, non proprio per scelta, ma neanche del tutto per la sorte, ritornai al mio paese. (intanto avevo scritto altre ed altre poesie) All’inizio l’idea era quella di comprare un furgone a poco prezzo e poi ripartire, in-sieme a Valerio e Gaia, ma ci riuscì impossibile acquistare il mezzo. Col tempo ci riuscì difficile anche il nostro rapporto, e così si ruppe anche la nostra amicizia.
Molti anni dopo mi venne l’ispirazione di scrivere un romanzo dedicato al mio vagabondaggio, e nel giro di un inverno riuscii a finirlo. Era forte, elastico, ironico, spietato, ma anche ap-passionante, sarcastico. All’inizio gli trovai il titolo: Sognando la California, ma nei giorni prossimi mi venne alla mente che probabilmente quel titolo l’aveva già usato qualcun altro, così lo cambiai in Sognando Los Angeles, ma subito dopo mi sembrò troppo diretto sulla città americana. No, io cercavo qualcosa che andava aldilà, e così, un momento dopo mi venne un altro titolo, Sognavo l’AmeriKa. Sì, perché la mia idea non era tanto quell’America, quella regione, quella terra abitata dagli ameri-cani e dagli indiani sfrattati, ma un’illusione, un sogno, un’utopia, che mi dava la speranza per riuscire a cavalcare la vita e spronare me stesso. Tuttavia poi mi venne un altro titolo, che mi parve ancora più originale e lo definii “Las Americas”.
Questo romanzo è uno dei più avventurosi che abbia scritto fin ora. Parla di questo mio viaggio senza una vera e propria meta, che parte da Roma e finisce a Tenerife, nella Plaja de Las Ame-ricas. In qualche modo in un posto chiamato America ci ero ar-rivato, anche se il nome aveva una consonante in più; la s. Esse come selvaggio, quello che in qualche modo ero io nei mie vent’anni.
Ergo, buona lettura.