domenica 1 aprile 2012

Anteprima della prefazione di "Las Americas", un mio romanzo di prossima pubblicazione

Prefazione

Chi non si è mai chiesto, almeno per una volta, nei suoi vent’anni, qual è il suo senso nella vita, e soprattutto, che cosa volerne fare dei propri giorni? Volere continuare a sognare fra le pagine di quel libro che vi ha rapiti, immaginando dei perso-naggi che riescono ad essere quello in cui voi ritrovate il vostro alter ego, (o probabilmente il vostro vero io) o invece decidersi, liberarsi da quel senso che ci tiene attaccati ai canoni di una re-altà comune, e andare a vivere di persona tutte quelle avventure e disavventure che la vita tiene in serbo per chi si sbilancia?
La maggior parte della gente, comune e non, non fa altro che fare finta, e si crea un personaggio che il più delle volte non è neanche il suo. Ma lo fa per paura, pura paura di affrontare quel che poi è la consistenza a dimostrare chi si è veramente. Certo, è duro, riuscire a tirarsi fuori da quella armatura che, comunque, in qualche modo sei proprio costretto ad indossare per attutire i colpi, ma la ragione sta proprio qui; è più conveniente subire questi colpi come una vittima o affrontarli perlomeno da essere vivente? No, perché perlopiù, e oggi più che mai, più che esseri viventi stiamo sembrando soltanto dei conviventi comuni, e che oltretutto non si sopportano a vicenda, o perlomeno l’uno vuole prevalere sull’atro. Vogliamo sentirci superiori agli altri. Ma secondo me non è questo il punto. Secondo me, se uno vuole qualcosa dalla propria vita, prima di tutto deve mettersi in discussione con se stesso, e affrontarsi, e anche nel caso che perda, non prendersi mai del tutto sul serio, ma seriamente con-tinuare a rischiare la rivincita. Gli dei ci osservano, o, oltremo-do, la vita.
Nei miei vent’anni avevo una voglia smisurata di andare via dal mio paese, e cercare una qualche forma di vita più interes-sante, (anche se tra l’altro non è che i miei giorni non fossero interessanti; ma io volevo di più) andare a vivere la vita davvero giorno per giorno, con le capacità del mio genio, e soprattutto per vincere quella mia paura che mi rendeva del tutto pigro, e mi faceva accontentare solo del sogno. (Intanto scrivevo poesie) Ma io in qualche modo sapevo che dentro di me qualcosa ci doveva essere, e così un bel giorno, per caso o per volontà, decisi di lasciare tutto e andarmene incontro ad una sorte vaga-bonda. Non ero sicuro di niente; non lo ero mai stato, ma la vo-glia, l’istinto, fu più forte di ogni pensiero. La sera prima che partissi nella mia avventura avevo all’incirca 140mila lire, ma quella sera, incontrando il mio amico Costanzo, decisi di brin-dare alla mia risoluzione. Quando io ho avuto una lira ho brin-dato quasi sempre a qualcosa. Se è stata amarezza ho brindato ad essa, se è stata una cosa simpatica ho fatto lo stesso, e così anche con tutte le altre cose emotive che mi sono capitate. Ad ogni modo, quella sera, poiché Costanzo era senza una lira, e siccome noi eravamo due che tracannavano, e che ci davano dentro di brutto, partirono le 40mila lire. Be’, avevo sempre le 100mila.
Costanzo era un gran bevitore e nello stesso un valente fuma-tore di cannabis. Io alle volte non riuscivo a capire come riu-scisse a mantenere le due sostanze insieme senza dare sintomi di sballottamento perlomeno visibile. Io ero uno che tracannava sì tanto, ma lo sballo lo accusavo, e mi ci perdevo, e addirittura ci godevo, e poi mi sprigionavo in follia, e finalmente mi ritrovavo in quella forma di vita che abitava dentro a quell’essere che sarei dovuto essere io.
Il giorno dopo sistemai lo zaino, presi la chitarra classica che mi aveva regalato un omosessuale a Graz, in Austria, andai a comprare qualche bottiglia, e nella serata fui già sul treno per Roma Termini.
I primi giorni a Roma, con i soldi in tasca, mi parvero una va-canza, ma quando mi finì la grana mi resi conto che dovevo darmi un bel da fare, e da quel momento, incurante del futuro, divenni un vagabondo. Passai mille storie, viaggiai per quasi tutta l’Europa, a volte in compagnia del mio amico Valerio e la sua ragazza, Gaia. Conobbi nuovi personaggi, un bel po’ di ra-gazze. Con qualcuna di loro ebbi delle spudorate avventure ses-suali. Poi rincontrai Petra, una ragazza bulgara che avevo la-sciato in Austria prima di questa mia avventura, il mio amico Costanzo, e poi ancora viaggi, fino a scoprire un amore platoni-co che vissi per tre giorni, fra Isabel, (una francese) e Teide, (canario) a Tenerife, nelle Canarie.
Feci il vagabondo per circa due anni, poi, non proprio per scelta, ma neanche del tutto per la sorte, ritornai al mio paese. (intanto avevo scritto altre ed altre poesie) All’inizio l’idea era quella di comprare un furgone a poco prezzo e poi ripartire, in-sieme a Valerio e Gaia, ma ci riuscì impossibile acquistare il mezzo. Col tempo ci riuscì difficile anche il nostro rapporto, e così si ruppe anche la nostra amicizia.
Molti anni dopo mi venne l’ispirazione di scrivere un romanzo dedicato al mio vagabondaggio, e nel giro di un inverno riuscii a finirlo. Era forte, elastico, ironico, spietato, ma anche ap-passionante, sarcastico. All’inizio gli trovai il titolo: Sognando la California, ma nei giorni prossimi mi venne alla mente che probabilmente quel titolo l’aveva già usato qualcun altro, così lo cambiai in Sognando Los Angeles, ma subito dopo mi sembrò troppo diretto sulla città americana. No, io cercavo qualcosa che andava aldilà, e così, un momento dopo mi venne un altro titolo, Sognavo l’AmeriKa. Sì, perché la mia idea non era tanto quell’America, quella regione, quella terra abitata dagli ameri-cani e dagli indiani sfrattati, ma un’illusione, un sogno, un’utopia, che mi dava la speranza per riuscire a cavalcare la vita e spronare me stesso. Tuttavia poi mi venne un altro titolo, che mi parve ancora più originale e lo definii “Las Americas”.
Questo romanzo è uno dei più avventurosi che abbia scritto fin ora. Parla di questo mio viaggio senza una vera e propria meta, che parte da Roma e finisce a Tenerife, nella Plaja de Las Ame-ricas. In qualche modo in un posto chiamato America ci ero ar-rivato, anche se il nome aveva una consonante in più; la s. Esse come selvaggio, quello che in qualche modo ero io nei mie vent’anni.
Ergo, buona lettura.

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