sabato 31 marzo 2012

Dal mio romanzo Non era mica Los Angeles

Costanzo ed io eravamo appena usciti dal bar la Catanese do-ve avevamo bevuto un paio di whisky a credito. Avremmo pa-gato prossimamente. Poi andammo in un supermercato dove comprammo una bottiglia di vino. Lì il credito però non ce lo facevano. Poi passammo dalla paninoteca Cardillo, ci facemmo prestare un cavatappi, e aprimmo la bottiglia. Quando fummo nuovamente per strada facemmo un bel sorso di vino mentre ci dirigevamo verso la villa comunale. Eravamo i ragazzi più fe-nomenali del momento, quelli che si permettevano di tutto sen-za rompere i coglioni a nessuno. Anzi, proprio per questo erano gli altri a romperli a noi. Ma con noi non ce la potevano fare, eravamo troppo presi dal nostro modo per farci fregare da loro.
Al parco (o zoo comunale, come noi preferivamo chiamarlo) ci sbracammo sulla nostra solita panca appartata, dietro al chiosco di Castro, e attaccammo la bottiglia, chiacchierando, e ridendo su storie che c’erano capitate. Poi arrivò Franco, uno schizzato consumatore di marijuana, sui venticinque anni, che si portava dietro il collirio e continuava a metterselo negli occhi per far sparire, e non fare vedere, l’arrossamento che l’erba procura. Secondo me era tutt’una perdita di tempo. Lui diceva che lo faceva per l’occhio sociale. L’occhio sociale. Quando diceva questo mi sembrava di avere di fronte un sacco per la spazzatura, vuoto. Ma in fondo Franco era un tipo bizzarro, si faceva grande dietro un mare di cazzate, però aveva fantasia, anche troppa, e tuttavia ti riusciva simpatico.
“Ci date dentro Già dal pomeriggio eh!” disse in un sorriso bislacco.
“Vuoi un sorso?” fece Costanzo.
“Come no.”
Prese la bottiglia, se la portò alle labbra come se dovesse ber-sela tutta, ma per nostra fortuna fece un normale sorso e poi la rimise dov’era, vale a dire a terra. Rimase qualche altro minuto, dicendo questa e quella cazzata, poi si accese una sigaretta e s’inoltrò fra la massa. Io feci un sorso mentre lo osservai sparire fra la gente. La massa. Mi sembravano dei sacchi per la spazzatura pieni.
“Non ti sembra che Franco spari un sacco di cazzate?”
“Si sente un veterano.” Disse Costanzo.
“Ho sentito dire che gli hanno tirato su un bel paio di pacchi.”
“L’ho sentito dire anche io.”
“Però è un tipo simpatico.”
“No, a me Franco piace.”
“Perché non ti ci fai fidanzato.”
“Non gli piacciono i maschi.”
“A me pare che non gli funzioni neanche con le donne.”
“Ah, questo non lo so.”
“Comunque fatti suoi.”
Presi la bottiglia, feci un altro sorso, e poi la passai a Costan-zo. Dopo aver fatto il suo sorso mi disse che ce n’era rimasto solo un poco. Dopo un po’ feci un altro sorso e poi ripassai la bottiglia a Costanzo che la vuotò. Eravamo ragazzi, e credeva-mo nelle affinità, e poi noi due eravamo come il secchio con la corda.
Più tardi ci ritrovammo nuovamente al bar La Catanese. L’alcol non ci bastava mai. Per amor di bere in quel bar, poiché era il più economico del paese, dovemmo vedercela con la peg-giore feccia di ubriaconi, gente sui quaranta che si prendeva davvero sul serio, e non ci stava molto a divenire violenta. Ma noi eravamo folli, e sapevamo prendere anche quella gente, che in fondo aveva più buon senso della gente moralista. Buoni diavoli. E in noi vedevano i loro sogni ormai morti e sepolti, e fra il nostro fare loro si perdevano volontariamente. Ma io e Costanzo, da ragazzi che eravamo, (io diciannovenne e lui quasi diciottenne) continuavamo nel nostro stile. Ogni uno di noi col suo, e stavamo a qualunque gioco ci desse emozione. E poi, tra l’altro, quegli ubriaconi ci trattavano bene, e qualche volta ci offrivano da bere ottimo whisky.
In serata, dopo essere ritornati alla villa comunale, incon-trammo Pippo, detto U Siculu. Un personaggio sui venticinque anni, più convinto che persuaso, che faceva la parte di quello che ne sapeva più degli altri, mentre in realtà era più insicuro dei fichi, e non quelli d’India, ma quelli nostrani. Si fa per dire.
“Ragazzi, voi due siete di quelli che possono farcela, però dovete ancora capire molte cose.”
Capire, capire. Che cosa dovevamo capire? Ma soprattutto, che cosa aveva capito lui? Noi, o almeno io, non volevo capire assolutamente niente. Io volevo solo vivere la mia vita e avere delle emozioni tutte mie, e non mi chiedevo niente aldilà di quello che mi era sempre stato difficile, ma tuttavia, anche in questo caso, non ci stavo poi tanto a pensare. Era una questione mia, che portavo dentro di me. Ma in fondo non ci capivo dav-vero un tubo. Tutto quel che sapevo era che avevo delle diffi-coltà nell’approccio con la realtà a me circostante, e spesso mi sentivo estraneo e minacciato.
Più tardi, mentre facevamo un giro per la villa, brilli, incon-trammo Orazio il pazzo. Un tizio sui quaranta, considerato come pazzo, per l’appunto, mentre era immerso in una delle sue solite esibizioni da spacciatore di vita.
“Siete una massa di morti.” Gridava alla massa “Siete vuoti. Siete noiosi. Ma fate qualcosa di diverso. Cosa avete paura? Svegliatevi. Svegliate questo paese. È nelle vostre mani, lo ca-pite?”
Quella villa era frequentata da un bel po’ di matti. Nel centro riabilitazione J.K., situato a pochi chilometri dal paese, ospita-vano solo quelli cronici, e il trenta per cento di quelli acuti (come li definiscono i dottori) frequentavano il parco. Per inci-so: a mio parere, i matti, sia dentro il parco che fuori, erano al-meno di un novantasei per cento. (in ogni posto e in ogni luogo del mondo) Tuttavia c’era sempre la speranza, il sogno, e l’illusione.
“Brutti stronzi che non siete altro, ma fate l’amore, e non la guerra.” Continuava Orazio. Poi ci vide. Qualche volta ci era-vamo fatti qualche bicchiere insieme. Non era affatto malvagio. “Eccoli, quelli sono due ragazzi vivi.” E ci indicò. “Ma se re-steranno sempre qua diventeranno più morti di voi.”
Alcuni passanti si voltarono verso di noi. Noi sorridemmo.
“Prendete esempio da loro, mentre sono ancora vivi.” Conti-nuò a dire.
“Secondo me sta scoppiando.” Dissi a Costanzo.
“Ma che, quello lo fa apposta.”
“Be’, andiamo va’.”
“Si, andiamo.”
Andammo a sederci in una panca di quello che veniva chia-mato il viale degli sballati. Infatti, quel viale era frequentato perlopiù da gente che faceva uso di droghe in genere e alcol. Giusto il viale per noi, anche se io, preferivo stare nei vicoli, (per modo di dire) ma tuttavia dovevo pure darmi da fare per scoprire la vita. Andammo a sederci fra il gruppo dove, a parte Franco, e Pippo u siculu., c'era Pippo, detto Pomo, lo svedese mancato, ventiquattro anni circa, Alessandro Capuozzo, l’estroso, ventitré anni, e altri che non sto neanche a nominare, anche perché non mi ricordo né i nomi e nemmeno i sopranno-mi, e peraltro perché non hanno avuto niente a che fare con le mie situazioni. Comunissime scimmie per me. Ad ogni modo, aldilà di questi ultimi, era un bel gruppetto di matti. Parlavano di tutto e niente nello stesso tempo. Quello che parlava di più era U Siculu, e peccava di presunzione in un modo spudorato. E tra l’altro si ostinava, e inoltrava spesso argomenti riguardanti gli stregoni Indios. Lui aveva la mania degli stregoni. Secondo me leggeva troppi libri di Castaneda. Anche Franco ogni tanto si fissava con questo Castaneda.
Più tardi Franco ci fece la proposta di andare nella casa in campagna dei suoi. Andammo in sei. Io, Costanzo, U Siculu, Capuozzo, Pomo, e, naturalmente, Franco. Io e Costanzo an-dammo con la mia Fiat Cinquecento, gli altri andarono con la macchina di Franco. Passai prima da casa dei miei dove presi una bottiglia di vino e poi li raggiunsi. Franco stava preparando degli spaghetti col sugo, aiutato da Pomo. Alessandro e U Sicu-lu stavano invece rullando un paio di cannoni. Sul tavolo, a par-te la mia, c’erano altre due bottiglie di vino. Durante la nottata Costanzo ed io eravamo sbronzi a dovere. Poi fu un’avventura rifare tutte le curve nella discesa verso il paese, ma alla fine riu-scii a portare sia me sia Costanzo, sani e salvi. Me n’accorsi la mattina, quando mia madre venne a svegliarmi per andare a la-voro.
“Giovanni, ti vuoi svegliare, sono già le sette e mezzo!”
“Si, si, mi sto alzando.”
“Se rientrassi prima la notte dormiresti di più, e poi la mattina ti sveglieresti più volentieri.”
Ne era sicura? Stava parlando con me? Si, stava parlando con me. Ma ero io? Si, ero proprio io, anche se non avrei voluto crederlo possibile, mi ritrovavo nella medesima realtà.
“Lo vuoi il latte o no?”
Continuavo a svegliarmi in una realtà non mia. Eppure era la sola, unica, e purtroppo ci ero dentro. Prendevo una tazza di lat-te macchiato con molto caffè e piena di pane, e poi andavo a lavorare. In ogni modo il tutto non mi affascinava per niente, e dentro di me c’erano le fiamme, ed io non riuscivo a spegnerle.
Allora facevo sia l’apprendista idraulico sia il bracciante agri-colo nelle campagne di mio nonno, e di entrambi i lavori non me ne piaceva neanche uno. Tuttavia in ogni uno dei lavori trovavo il lato migliore o peggiore dell’altro. Quando facevo l’idraulico potevo svegliarmi più tardi la mattina ma dovevo lavorare fino alle sei di sera. Quando invece facevo il bracciante dovevo svegliarmi più presto la mattina ma tornare a casa nel primo pomeriggio. L’unico lato che mi piaceva in entrambi era la paga. E poi la sera ero di nuovo là, allo zoo comunale, ad aspettare che passasse il primo treno per saltarci su, o ad inventarmelo un treno. Lo odiavo quel parco, ma alternative non se ne vedevano nel paese, e quindi mi ritrovavo più o meno sempre là. L’unica scappatoia che avevo, a parte i bar, era il garage di un fabbricato che mio padre aveva tirato su come futura casa dei suoi figli, dove ogni tanto andavo con Costanzo o altri, a fumare spinelli, bere, e fare casino. Spesso ci trovavo dentro mio fratello Marco con i suoi amici, intenti a pomiciare con le loro ragazze. Ma tornando alla villa, o parco, o zoo; ogni uno ci attribuisca il nome che più gli garba. Tuttavia allora la villa aveva qualcosa di particolare. In mezzo a tutta la massa che la frequentava, c’erano dei tipi che si distinguevano, gente che aveva il suo stile, che si ribellava, chi filosofeggiava, chi blaterava, chi si vestiva totalmente diversamente dagli altri, chi annunciava nuovi modi di pensare, chi proponeva di sbronzarsi, chi parlava di un Dio, Costanzo che parlava d’Anarchia, e io che avevo un modo stravagante e parlavo una lingua non del tutto comprensibile neanche a me stesso. Ero matto? Un po’ come tutti del resto, ma non proprio del tutto. C’era una strada dentro di me, e io, inconsciamente la seguivo. Ma la realtà, cristo, la realtà, quella mia realtà dentro a quello zoo era come andare in una scuola dove i professori – che dovrebbero insegnarti – ne sapevano meno di te che eri lì per imparare. Se ne stavano tutti la, matti, pazzi, ribelli, matta gente comune, a parlare, parlare, parlare, ma non fare niente di strepitoso. Me compreso, che perlopiù non sapevo come esprimermi, anche se infondo volevo dire tante di quelle cose in cui io stesso mi perdevo. Infatti, non riuscivo a pronunciarle, e continuavo a starmene nel mio silen-zio, nella mia nebbia, nella mia incertezza, nel dubbio, mentre nuotavo nel vuoto a stile libero. A volte a rana, a volte facendo il morto aggalla. Finché qualcuno come Orazio il pazzo, o Pippo il rabbino, (un altro matto sui trentacinque anni) non smuovevano le acque, e mi immergevo sott’acqua e nuotavo ad occhi aperti fra i pesci che si allontanavano, i molluschi che sprofondavano sotto la sabbia, e le alghe che mi arrivavano in faccia. Quando poi mi mancava il fiato riemergevo e tiravo dritto verso la deriva, dove andavo a sdraiarmi come un leone, che si abbandona, ma mantiene il suo istinto felino. Comunque. Ogni sera mi ritrovavo nuovamente alla villa, e ogni sera la ri-vedevo per com’era, e se volevo qualcosa la dovevo far succe-dere io. Tranne che non faceva succedere qualcosa Costanzo. Tuttavia, al limite, ci facevamo trasportare da qualcuno, e a-spettavamo che facessero succedere qualcosa loro. Ma perlopiù loro non facevano succedere altro che odio reciproco. Una cosa davvero disgustosa. Io in questi frangenti mi sentivo così costi-pato che spesso arrivavo al punto di sbottare e mandare tutti a quel paese. Quale paese? Be’, non lo so! Mi ci hanno mandato spesso anche a me, ma mai mi hanno indicato la strada, o dato una direzione. Hanno solo detto vai a quel paese. Be’, è inutile continuare il discorso. Comunque a me è sempre piaciuto di più dire vai a fare in culo, almeno qui sappiamo che si tratta del no-stro, ma quel paese è troppo evasivo. Anche se vuole dire la stessa cosa d’andare a farsi fottere. In entrambe i casi non piace, o perlomeno, se quel paese fosse una via di fuga da questo mondo la cosa sarebbe anche fantastica, mentre nel caso di farsi fottere, a qualcuno piace. Ma lasciamo andare questo argomento poco letterario. Anche se io letterario non sono affatto. Io sono soltanto uno che ha sempre cercato di vivere, e per vivere si è ritrovato anche a leggere e scrivere. Ma la vita, una vita davvero… be’, lasciamo perdere. Ma che dire ancora dello zoo comunale? Soltanto che io avevo bisogno di tirarmi fuori prima possibile.

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