mercoledì 2 novembre 2011

Traccia, anomalia genetica

Il treno era diretto verso Bologna. Mi cercai uno scompartimento vuoto di prima classe e mi ficcai dentro. Misi la busta che avevo in mano sulla poltrona, sistemai lo zaino e la custodia di fin pelle contenente la mia chitarra Andalusa sul porta bagagli, mi tolsi la giacca, le scarpe, abbassai le due sedie accanto al finestrino e mi sdraiai sopra. Tirai fuori dalla busta la bottiglia di vino rosso e il panino imbottito che avevo comprato in un alimentari con i soldi che mia aveva dato Nat prima che sloggiassi da casa sua. Lei mi aveva ospitato per passare un po’ di tempo a casa sua, magari per il tempo che finisse l’inverno, ma dopo quattro giorni mi resi conto che stavo puzzando più del pesce. Nat era una ragazza gentile, alla mano, pronta a tutte le emozioni, e con una voglia sfrenata di familiarizzare un po’ con tutti quelli che lei pensava tipi OK. Diceva proprio così Nat. Quello è un tipo OK! Naturalmente Nat era il suo soprannome. Il suo vero nome era Natalina, ma siccome lei era una tipa che si considerava underground preferì cambiare il nome e farsi chiamare Nat. Da quando stavo in giro avevo conosciuto un sacco di personaggi con nomignoli bizzarri. Uno si faceva chiamare Spada, l’altro Camaleonte, Zecca, Uncino, e così via. Be’, anche io… ma il mio era solo un diminutivo che mi avevano messo gli altri. Invece di chiamarmi con l’intero mio nome Giovanni, hanno preferito chiamarmi Giò, e col passare del tempo io stesso mi presentavo dicendo Giò. Ma era così, tanto per far girare la trottola.
Tolsi la carta dal panino, me la misi sul dorso, e subito dopo lo attaccai. Avevo una fame bestiale. Nei quattro giorni che ero stato ospite nella casa di Nat avevo mangiato quanto un canarino. Troppo alcol, troppa anfetamina, troppo sballo, e troppe persone, specialmente femmine. Quell’appartamento affittato di Nat era un vero casino. Arrivava sempre qualcuno, e tutti quelli che ci venivano, perlomeno nei quattro giorni che ci sono stato io, arrivavano intenzionati a sballarsi. Poi Nat non era certo una tipa che in casa si faceva mancare marijuana, hashish, alcol, pasticche, coca, e quindi immaginate uno come me, uno che si era buttato dentro di tutto, sostanzialmente alcol, e che non si dava mai per vinto. Tirate il conto e viene fuori il risultato. In pratica in quei quattro giorni a casa di Nat non sono mai stato lucido. Novantasei ore di perdizione continua. Togliendo ovviamente i momenti di sonno. Sì, perché anche trattando di dormire, non è che mi era riuscito di dormire più di tanto. Giusto quando mi stavo addormentando, o persino quand’ero già bel e addormentato, arrivava sempre qualcuno che mi svegliava, anche di forza. C’erano momenti che mi veniva di uccidere qualcuno.
Aprii la bottiglia di vino con un cavatappi che avevo fregato a Nat e feci una bella sorsata. In quell’istante mi bruciò l’uccello, così lo massaggiai un po’ con le dita sulla patta. A casa di Nat avevo preso anche un’infiammazione all’uccello, una notte che mi trovai a letto con due ragazze. Me ne scopai una, (o mi scopò lei. Chi si ricorda) e fu proprio il giorno dopo che mi ritrovai la cappella come ustionata. La cosa più ironica fu il fatto che non mi ricordavo con quale delle due ragazze avevo avuto il rapporto sessuale, e siccome non osai chiederglielo, poi spiegai la cosa a Nat, e lei mi diede del sapone intimo con cui lavarmi l’uccello. Be’, quel sapone fece un po’ il suo effetto, ma l’infiammazione, anche se attutita, mi restò addosso.
Poi tirai fuori le sigarette e me ne accesi una, ma quando feci per aspirare mi venne uno sbadiglio felino. Avevo bisogno di una bella, sana, dormita. Avevo gli occhi che mi si chiudevano da soli. Feci un’altra sorsata dalla bottiglia e poi un altro tiro nella sigaretta. Dopo quella sigaretta avrei posato la bottiglia nello zaino e mi sarei lasciato andare nelle poltrone. Mi sarei fatto tutta una tirata di sonno Verona Bologna. Be’, crollai sì, ma dopo aver vuotato del tutto la bottiglia e fumato un’altra sigaretta.
Alla stazione di Bologna dovette svegliarmi il bigliettaio, prima che il treno ripartisse, perché ero collassato nel sonno. Tutto sconvolto presi lo zaino e uscii dal treno. Solo quando il treno prese a muoversi mi resi conto che mi mancava qualcosa: la chitarra. Lasciai cadere lo zaino, mi lanciai sulla porta del vagone, andai di corsa nel mio scompartimento, presi la chitarra, ripercorsi il corridoio correndo, e saltai giù, finendo a terra come un idiota, nello stupore di tutti gli spettatori. Ma quella che si era fatto qualcosa di serio era di sicuro la chitarra, perché aveva preso proprio una bella botta lei.
“Ehi, ti sei fatto male?” disse qualcuno fra la gente.
“Io no, ma la chitarra credo proprio di sì.” Dissi rivolto, ma sostanzialmente a me stesso.
Ero ancora troppo sconvolto dai quattro giorni passati a casa di Nat.
Tirai giù la cerniera della custodia e vidi che si era staccato il ponte della chitarra. Cazzo, ora col cavolo che potevo pensare di fare qualche moneta suonando la chitarra. Be’, quel che mi sarebbe servito sarebbe stato un po’ di colla da falegname. Ma c’erano i falegnami a Bologna? Certo, un falegname lo si trova dappertutto. Be’, per il momento, dopo essermi dato una sciacquata nei cessi pubblici, mi misi a fare un po’ di colletta. Giusto i soldi per una cioccolata calda corretta con grappa. La gente si è sempre sprecata. Il fesso ero solo io, che anche da vagabondo davo soldi ad altri vagabondi, barboni, e gente da strada in genere. Una volta diedi anche trecento lire ad un borghese che me li chiese perché il tabacchino non aveva gli spiccioli da tornargli. Ma lui non è che in cambio mi diede una cinquemila, no, lui se ne uscì con un grazie, senza neanche rendersi conto, o magari facendo finta, che io con quelle trecento lire in meno mi ero giocato un panino, e quindi un pasto. Solo chi è povero sa cosa vuol dire essere in grana. Quando si è abituati alla grana non si bada più ad altro, a parte il cercar altra grana naturalmente. Ah se avessi ascoltato mio padre, sarei divenuto anche io uno con la grana sempre in tasca. Invece avevo scelto, o forse mi ero ritrovato per quella strada. Come a casa di Nat, non mi mancava niente, avevo proprio tutto, alcol, compagnia, divertimento, persino soldi che lei mi lasciava, femmine, eppure io non riuscii a fare a meno di fare il guasta feste. Ce l’avevo proprio nel DNA. Traccia, anomalia genetica.
Uscii dal bar, con la cioccolata calda in corpo, andai a sedermi su una panca, mi accesi una sigaretta, e mi sbracai in una forma di quiescenza.
Non riuscivo a decidere il da farsi, se andare alla ricerca del falegname lì a Bologna o se non era meglio scendere fino a Roma, e cercarlo li il falegname, poiché in quella città avevo più dimestichezza. Be’, per il momento decisi di uscire dalla stazione ferroviaria e fare un altro po’ di colletta. Questa volta la colletta fu più fruttuosa, così decisi di andare in un’enoteca che già conoscevo, comprare una bottiglia di vino, un panino in qualche alimentari, e se non mi fosse successo niente di particolare lungo la strada del ritorno fino alla stazione, prendere il primo treno diretto a Roma.
Arrivai nell’enoteca, aprii la porta, ed entrai dentro. C’era solo il proprietario dentro.
“Ehi.” Mi fece “Di nuovo nei paragi?”
“Già.”
“Sempre di poche parole tu.”
“Be’, se mi sentisse quando attacco a parlare potrebbe chiudere bottega.”
“Perché?”
“Eh, perché… perché potrebbe prenderci gusto.”
“Ah sì?”
“Già.”
Mi misi ad osservare le bottiglie qui e là fra le mensole.
“Sempre il solito vino buono a poco prezzo o è un’altra di quelle volte che ti sbilanci?”
“Be’, di lei mi sono sempre fidato… a parte una volta che mi ha tirato una fregatura… ma sono cose che capitano nel commercio.”
“Ti intendi anche di commercio tu?”
“Provengo da una famiglia di commercianti io, e poi sono cresciuto nella bottega dei miei nonni.”
“Che tipo di bottega?”
“Generi alimentari.”
“Ah! E allora che vino ti prendo?”
“Buono a poco prezzo.”
Mi diede una bottiglia di Chianti a poco prezzo. Salutai il mio amico venditore di vini e tornai instrada. C’era un alimentari più in là. Entrai e comprai due panini imbottiti. Uno lo attaccai mentre ripercorrevo la strada verso la stazione. L’altro lo lasciai nella busta dove c’era anche la bottiglia di vino. Lo avrei consumato più tardi.
Vidi una farmacia. Entrai e domandai quando costava un detergente intimo efficace per le infiammazioni. Il medico mi chiese di che stato fosse l’infiammazione. Gli spiegai un po’ la faccenda.
“Allora ci vorrebbe una pomata, ma prima dovrebbe farsi vedere da un medico.” Fece il dottore.
Gli dissi di darmi una pomata generica e che non costasse troppo, anzi, che costasse poco. Il tipo mi osservò ancora un attimo con curiosità e poi mi diede una pomata. Guardai prezzo. Non era troppo, ma per me era comunque alto. Ironicamente dissi al tizio se non poteva farmi mica uno sconto. No, non mi fece lo sconto. Vabbé, pagai e me ne andai.
Nei cessi della stazione andai a mettere un po’ di quella pomata nella cappella. C’era un piccolo inferno sulla zona.
Alla fine decisi che avrei aggiustato la chitarra a Roma. Così poi presi un treno diretto a Roma Termini. Mi trovai uno scompartimento solitario e mi sbracai sulle poltrone. Avevo il vino, avevo il panino, ero felice. A parte quell’inconveniente fra le mutande.

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